Le occasioni dell’amore

Ci sono persone come te e ci sono persone come me, moi je suis comme ca.
Ritmo lento, lentissimo eppure ti tiene tutte le due ore a chiederti come la risolverà, questa storia in sè banale che potrebbe prendere qualsiasi direzione.
Alla fine non è importante come la risolve quanto l’intensità emotiva che trasmette.
Lui è Guillaume Canet, bravo, ma è Alba Rotwacher, che riesce ad essere espressiva pure ripresa di nuca, a confermarsii di bellezza e bravura “oltre”.
Regista Stéphane Brizé: avrei scommesso fosse Stephanie.
Diamanti

Comincia con una specie di backstage: Opzetek e le attrici dei suoi film intorno a un tavolo che leggono le rispettive parti mentre il regista spiega la sua poetica: celebrare le donne e il loro lavoro.
Questa scena si ripete almeno un altro paio di volte durante il film, con passaggi fluidi fra il backstage e la grande sartoria che confeziona costumi per cinema, qui per un film che si svolge nel ‘700.
La sartoria è gestita da due sorelle che si trovano ad avere a che fare con una grande costumista, premio oscar, che dà indicazioni, circa l’effetto che vuole ottenere con quel costume, con frasi sconclusionate che tutte fingono di capire.
Ognuna delle donne della sartoria ha qualche dramma nascosto che emerge inesorabile circa ogni quarto d’ora, alternato alle scene in backstage, con l’evidente scopo di spezzare a forza, a volte a freddo, con eventi o ricordi drammatici, una narrazione che non c’è.
Le attrici tutte brave – Geppi Cucciari fa sè stessa nella veste di sarta – perché Opzetek è un signor regista che sa come muovere la macchina da presa in mezzo a tanti personaggi e sa come cogliere le espressioni. Solo che bravi attrici espressive non bastano a coprire la ricorrente, fastidiosa sensazione ecco che mo’ arriva il colpo di scena.
È un regista che ormai da anni spreca quel talento che nei primi tre, quattro film, risultò cristallino.
La morale ci viene inflitta nell’ultima egocentrica scena, quando un Opzetek con aria ieratica e ispirata si aggira per le stanze ormai vuote del set mentre voci fuori campo ci ricordano, ce le fossimo scordate, le frasi più significative di abissale profondità, tipo se ci si vuole bene non serve vedersi o tutte insieme ce la possiamo fare o non siamo niente e siamo tutto e via di questo passo.
L’omaggio finale al cinema e a grandi attrrici come Monica Vitti, Mariangela Melato e Virna Lisi arriva fuori posto e mi pare sia solo l’ultima autocelebrazione.
Gli uomini: con l’unica eccezione della faccia simpatica di Luca Barbarossa che con la moglie sopravvivono alla morte della figlioletta investita sulle strisce (anche questa ci arriva a freddo, con la grande trovata di far muovere l’attrice lungo un murales con una grande faccia di bambina) e senza testimoni – gli uomini, dicevo, sono tutti irrimediabilmente stronzi, ciascuno a suo modo, oppure sono boy toy da usare, in un rovesciamento in cui le battute sul bel culo o che ti farei le fanno le donne.
Quando uscì lessi commenti entusiasti, soprattutto di donne, che forse si sono sentite valorizzate o forse vendicate. Purtroppo, la logica che sta sotto è quella della guerra fra i sessi, tanto che un potenziale femminicidio ci viene raccontato essere diventato un ‘omminicidio”, che risulta pure divertente, per quanto odioso e sopra le righe figura il sempre bravo Vinicio Marchionni al quale qui viene chiesto di scimmiottare il Valerio Mastrandea di C’è ancora domani.
Meglio farli fare alle donne i film dalla parte delle donne, no? Noi uomini avremmo più da riflettere su noi stessi.
Un BRUTTO film, da evitare.
Come eravamo

Non mi è stato facile scegliere l’immagine per “Come eravamo”.
A più di cinquant’anni di distanza mantiene tutta la freschezza della difficoltà, nonostante un sentimento profondo, di far convivere la passione inesauribile per le sorti del mondo, che fa mettere in secondo piano anche le relazioni personali, con la semplice voglia di “anche” godersi la vita.
Sono sempre toccato in profondità dallo “spreco relazionale potenziale”, anche quando sembra inevitabile, quali che siano le circostanze che lo rendono tale.
Nell’incontro finale, dopo una dolorosa separazione, sono tutti e due soddisfatti delle vite che si sono costruite, eppure quel gesto che sistema sulla fronte il capello fuori posto dice dello spreco irrecuperabile.
Un plauso anche al grande Sidney Pollack, che ha diretto R. Redford anche ne Il cavaliere elettrico, I tre giorni del condor, La mia Africa. Lo ricordo anche come attore credibile in Eyes whide shut.
Due Partite

Da un testo teatrale di Cristina Comencini, recuperato nei bassifondi di Raiplay, segnalato da qualcuno che di solito ci prende. Non un’opera memorabile, tuttavia la messa in scena di due generazioni di donne mi arriva credibile. Le madri si vedono per giocare a carte e si scambiano confidenze sulle loro vite infelici, tutte con figli, quasi tutte tradite e che tradiscono eppure restano. Le quattro figlie, tutte donne professionalmente affermate, nessuna con figli – l’unica che lo vorrebbe non ci riesce – si ritrovano alla morte di una delle madri, a raccontarsi le tristezze di una generazione dopo. Gli uomini sono sullo sfondo, solo raccontati, nemmeno troppo pessimi anzi qualcuno insopportabilmente affettuoso.
Sentimenti esposti con leggerezza non superficiale, anche le due generazioni di attrici esprimono il meglio. Credo possa piacere sopratutto a donne, ma poi chissà, in fondo le situazioni proposte sono talmente diverse che chiunque un pezzetto di sè ce lo potrà trovare.










