Homo Deus – Breve storia del futuro

” certo possiamo scegliere quali azioni compiere, ma possiamo scegliere quali desideri avere? E se questi sono determinati da processi biochimici in che cosa consiste esattamente la libertà? “
Un concentrato di intelligenza, come ogni volta che un rigoroso esame del presente e del passato induce a porsi domande epocali, senza la pretesa di avere le risposte.
Non riesco a riprodurre i percorsi con i quali Harari arriva ad una serie di – ipotetiche e potenziali, sia ben chiaro – previsioni, cerco di limitarmi ad esporne alcuni assunti.
L’evoluzione tecnologica consente quantomeno di “pensare” che l’immortalità sia possibile, insieme al raggiungimento della felicità, ma questi bei progetti sembrano presupporre un’economia a crescita infinita che probabilmente ci condurrà all’estinzione, per mano di creature superiori all’homo sapiens che noi stessi stiamo cominciando a generare.
Uno degli assunti, mi pare sia proprio il principale, su cui poggiano gli argomenti di Harari è che i neuroscienziati avrebbero dimostrato che non esisterebbero gli individui, ma che ogni essere umano sarebbe costituito di un insiemi di algoritmi, sopratutto biochimici. Ad esempio, le emozioni – “provare” qualcosa – sarebbero prodotte da una serie di algoritmi che sono stati essenziali per lo sviluppo dell’homo sapiens, secondo i principi di Darwin della sopravvivenza del più adatto.
Se “sentire” deriva da algoritmi biochimici, allora anche gli animali “sentono”, e non si può escludere che “entità” di provenienza informatico/elettronica possano/potranno “sentire”. La superiorità dell’homo sapiens è data dalla nostra capacità di collaborare e di farlo con estrema duttilità, a differenza ad esempio delle formiche o delle api,Altra superiorità dell’homo sapiens sta nella capacità di raccontare storie, e dunque di dare un senso al passato, fare previsioni per il futuro. costruire entità immateriali e intersoggettive come il denaro, gli dei, etc, con funzioni rilevantissime nella nostra esistenza.
Fra queste entità, quella che da qualche secolo ha prevalso, è l’umanesimo, che riconosce una serie di diritti fondamentali a ciascun uomo, fra cui la capacità di realizzarsi al meglio. Qui il punto è in che cosa consisterebbe la libertà: di certo possiamo scegliere quali azioni compiere, ma possiamo scegliere quali desideri avere? E se questi sono determinati da processi biochimici in che cosa consiste esattamente la libertà?
L’evoluzione dell’economia, d’altra parte, tende a rendere sempre meno utili i singoli individui, o meglio la massa dei singoli individui, che possiamo constatare come vengono sempre più rapidamente sostituiti da algoritmi non-umani, anche se creati da uomini. Ma a mano a mano che questi nuovi organismi diventano “capaci di apprendere” sempre meno l’intervento umano sarà necessario. Basta pensare alla medicina: una volta immagazzinati una mole sterminata di dati di tutti gli individui, un computer potrà fare nella maggior parte dei casi diagnosi più accurate e proporre terapie più efficaci della maggioranza dei singoli medici.
La nuova religione dell’umanità potrebbe essere basata appunto sui dati. I Datisti sostengono che un computer che conosca la maggior parte delle informazioni significative su di me potrebbe essere in grado di conoscermi meglio di me stesso e di anticipare i miei desideri. Il che è ciò che, in forma ancora largamente grezza, già fanno i vari Google, Facebook, Amazon etc. Non si può perciò escludere che saremo governati “per il nostro bene” da macchine da noi costruite, che si saranno da noi emancipate.
Sicuramente ho tagliato con l’accetta concetti che Harari espone sempre con un interessante corredo storico e scientifico. Difficile condividere la tesi centrale; mi fa tornare alla mente suggestioni liceali / universitarie del Barkley che considerava la realtà come “meri fasci di sensazioni” e l’individuo come “insieme di algoritmi”. Difficile anche confutarla.
Mattino e sera

Se lo avessi letto senza conoscerne l’autore, dovendo indovinare, avrei detto Hemingway. Per lo stile, non per altro.
” Come è andata ieri la pesca? dice Johannes Ieri ho fatto davvero un colpaccio, dice Peter Un colpaccio? dice Johannes Avresti dovuto esserci ieri, Johannes, dice Peter Avresti dovuto esserci, sì, dice “
E prosegue per un pò. La punteggiatura è quella che vedete qui, non ho colto il significato della mancanza dei punti e lo stesso andare a capo e ricominciare con la maiuscola.
Nè ho colto il significato del far cominciare alcune frasi, dopo un a capo, con “e” (minuscolo).
A parte queste curiosità, non saprei definirle altrimenti, grammaticali (?), dopo le prime trenta pagine piene di ripetizioni stavo per abbandonare, e stavolta il richiamo era ad “Aspettando Godot”. Ho deciso di proseguire, visto che in totale si tratta di 152 pagine e pure di piccolo formato, e ho fatto bene.
Da un certo punto in poi è molto chiaro dove andrà a parare, e comunque qui non lo svelo e mi limito a dire che vale la pena arrivare alla fine, perchè la fine, anche se nota da almeno metà, riesce ad essere commovente, pur con tutti gli scherzi di punteggiatura e i dialoghi ripetuti.
Custode di mio fratello

Un primo criterio per stabilire – un mio criterio, si capisce – se un libro merita di essere letto e se, quindi, è valsa la pena averlo fatto pubblicare, pubblicare, non scrivere, chè scrivere vale la pena sempre, è se mi fa venire voglia di continuare, mentre lo leggo, e mi fa dispiacere che sia finito quando arrivo alla fine.
Un altro criterio è che racconti una bella storia, con personaggi che si capisce chi sono.
Infine, una scrittura interessante, che può essere levigata e scorrevole o puntuta e graffiante, purchè trovi il modo di arrivarmi almeno qualche volta sotto pelle.
“Custode di mio fratello”, di Mario Santamaria ha soddisfatto il primo dei miei criteri: da quando l’ho preso in mano mi è rimasta la voglia di riprenderlo e di arrivare alla fine.
Circa la storia e i personaggi, beh, la storia c’era e i personaggi pure, la sorpresa è stata che la scrittura, che aspettavo come il pezzo più forte, avendo già letto il romanzo precedente e anche tanti post su Facebook che si distinguono proprio per la scrittura accurata e intensa, la scrittura mi ha affaticato.
Purtroppo.
Non c’è stata pagina in cui non sia dovuto tornare indietro a rileggere almeno un paragrafo e da un certo punto in poi ci ho rinunciato e mi sono accontentato di proseguire a intuito.
Per quanto, ancora adesso sospetto che Caio e Xud siano la stessa persona ma non ne sono certo.
Ma perchè non poteva essere scritto come la bella pagina e mezzo di “Ringraziamenti”, lineare senza che diventi banale?
Ma, poi, forse non è la scrittura in sè, forse è quell’eccesso di gioco a nascondino con il lettore, che ti butto una cosa qui che proprio non la puoi capire, caro lettore, e fra dieci pagine vediamo se sei stato attento e cogli il collegamento con quest’altra cosa.
Fine delle considerazioni di stile.
Circa il contenuto, credo sia ben reso sopratutto il personaggio del carrozziere fascista puro, forse con un eccesso di apprezzamento, se no magari un po’ di entrate economiche sarebbero trapelate dal molto verosimile commercio di appartamenti di uno che è considerato il boss dei blocchi.
Meno credibile il fratello chirurgo estetico, ancora meno la sorella adottiva – non svelo niente, sta scritto nel risvolto di copertina – che davvero non sono riuscito a capire alla fine con quale livello di danno se la sia cavata, a parte aver incontrato la spregevolezza presente dei due fratelli, e quella passata che ci viene fatta intuire, tanto che alla fine il personaggio più simpatico mi arriva il pessimo padre fascistone che se l’è goduta alla grande a Londra, non solo frocio ma pure con l’amante ricco ebreo. Perchè pure la madre, insomma…
Che dite, che non si salva nessuno? È precisamente così, e forse ha voluto essere questo il segnale dato allo spirito del tempo.
La sovrana lettrice

Grande preoccupazione a corte: la regina, vicina agli ottanta, ha cominciato a leggere libri!
Non che questo la distolga da suoi doveri, non che la induca a comportamenti inappropriati, tuttavia, nell’entourage, cercano rimedi.
Ne trovano di provvisori, come far scomparire qualche addetto a cui la regina si è forse affezionata, anche se la sua regale posizione non le permette nemmeno di cercarlo.
Il primo ministro si tranquillizza e immediatamente dopo si turba quando la regina fa sapere, in occasione della festa per gli ottanta, che ha intenzione di passare dalla lettura alla scrittura: non di viaggi, nè di un memoire, forse di un saggio e, chi lo sa, forse di un romanzo, perchè no.
Il primo ministro è sbiancato, e non ha ancora letto l’ultima riga di queste deliziose cento pagine di Alan Bennet, sempre soave e pungente.
La vegetariana

Il romanzo – 176 pagine – è diviso in tre parti: nella prima il protagonista è il marito, nella seconda il cognato, nella terza la sorella.
Marito, moglie, sorella di Yeong-hye: la vegetariana.
Il titolo può trarre in inganno, da qualche parte ho letto commenti insensati del genere “hai visto che succede a non mangiare più carne?”.
Si tratta della storia della follia di una donna, che parte da alcuni sogni spaventosi. Ma l’autrice non vuole condurci nell’abisso che può aver prodotto quei sogni e i comportamenti succesivi, si limita a mostrarci il baratro del presente e come se ne varca, inesorabilmente, la soglia.
La scrittura è “povera”; mi sono interrogato sulla difficoltà di tradurre dal coreano, ho cercato in giro e ho scoperto che in realtà il testo italiano è una traduzione della iniziale traduzione inglese, a quanto pare fonte di forti polemiche in Corea e non solo.
Ho immaginato di poter leggere la seconda parte, di gran lunga la più bella, in originale e mi è piaciuto convincermi di come – forse – sarebbe stato visionario il movimento di due corpi dipinti di fiori mentre fanno all’amore, uno coinvolto allo spasimo e l’altro partecipe per inerzia. Una specie di violenza consensuale, se mi si passa l’ossimoro.
Inquietante. Peccato non conoscere il coreano: ho provato con i film di Kim-Ki-Duk (da non perdere) sottotitolati ma temo non sia sufficiente
Per sempre

La voce carezzevole di Roberto Ciotti – sono già undici anni che è morto, mi pareva l’altro ieri e in effetti pure il Big Mama non c’è più da un po’ – con il suo tenero inglese pensato in italiano e la straordinaria chitarra si è rivelata un’ottima abbinata con le ultime pagine di questo romanzo.
Mario Santamaria diceva che la trilogia di Bascombe era imperdibile, e la cercherò, visto che questo pare essere il quarto con lo stesso protagonista.
Franck Bascombe, che per oscuri motivi il figlio Paul chiama Lawrence.
Paul ha la sla e il padre lo accompagna nella clinica dove sperimentano una nuova cura e, visto che non lontano c’è il monumento con le facce dei quattro presidenti scolpiti nella roccia, perchè non andarli a vedere?
La storia è tutta qui e mi ha tenuto attaccato per tutte le trecentocinquanta pagine nel midwest di motel scalcagnati, venditori di macchine usate, bar di vario genere e tutta l’umanità intorno.
Paul, poi, è uno simpatico che non se la tira per il fatto della sla e il padre pure non gliele manda a dire nè lo tratta con condiscendenza per via della sla.
Fra l’altro, gli è toccata una figlia femmina gay di destra e che può capitare di peggio a un padre?
“Ti piace rifletterci, sulle cose, eh Franck?”
“No seguo l’istinto e poi trovo le motivazioni. Come tutti.”
Questo un pezzetto di dialogo (a memoria) e sì, nemmeno Richard Ford, che pure la sa lunga, se la tira.
Da leggere.
Avanti va il mondo

A pagina centotrenta delle trecentocinquanta di quest’opera ho lasciato perdere.
Una scrittura che si fa leggere – e ci mancherebbe, da un premio Nobel – ma una ripetitività e una ridondanza che per le prime cento pagine si esercitano sui pensieri profondi di chi scrive, senza fatti.
Da pagina cento circa arriva qualche personaggio.
Poi, sfogliando avanti, ci sono capitoli – direi racconti – in cui forse qualcosa succede.
L’ultimo capitolo si intitola:
“Il cigno di Instambul (79 paragrafi su pagine bianche)
In ricordo di Kostantinos Kavakis”.
Seguono venti pagine bianche, come promesso.
Nella pagina finale l’Autore ci fa sapere, con parole certo migliori della mia sintesi brutale, che il mondo non gli piace e che non vuole portarsi niente appresso.
Confesso il mio limite, ma la risorsa scarsa è il tempo.
Una questione privata

Comincia come una storia d’amore di Milton per Fulvia e di amicizia fra Milton e Giorgio.
Milton non fa altro che pensare a Fulvia, che dalla villa di campagna dove i genitori l’avevano mandata è tornata in città, ora ritenuta più sicura.
Milton è un partigiano ventenne, con l’amico Giorgio sono i soli di provenienza borghese, entrambi universitari.
Quando gli capita di passare davanti alla villa non può fare a meno di avvicinarvisi e di chiedere di Fulvia alla governante che è rimasta lì.
Le parole della governante, ambigue circa la relazione che potrebbe esserci stata fra Fulvia e Giorgio diventano il motore del romanzo, perché Milton deve assolutamente incontrare l’amico e farsi spiegare, capire.
Perciò lo cerca alla base della loro brigata ma si è spostato in un altro gruppo e quindi Milton si muove in quell’inverno fangoso che tira giù nebbie che non ti puoi vedere la punta della scarpa. Gli incontri con i Rossi – Milton è di una brigata badogliana – con i contadini di questa o quella cascina, gli scambi di racconti fra partigiani accompagnano i suoi movimenti, sempre più faticosi, con tutto quel fango che gli si aggruma addosso.
Quando finalmente raggiunge il gruppo di Giorgio l’amico è rimasto attardato e non arriva e non arriva finché qualcuno dice che l’hanno catturato i fascisti ma nessuno è sicuro di niente.
Milton allora cerca fra le brigate chi abbia un prigioniero fascista per poterlo scambiare con l’amico ma niente da fare e allora si ingegna a procurarselo lui.
Da qui il racconto quasi si incattivisce: il prigioniero muore da una pistolettata (involontaria?) di Milton, una maestra fascista viene rapata, un ragazzino fucilato dai fascisti.
Di Giorgio non si sa ancora niente di preciso e, mentre Milton va verso Alba senza più un piano di azione, avendo perso il prigioniero da scambiare, si imbatte in un gruppo di fascisti dai quali scappa e queste ultime pagine tra colline scivolose di fango, corsi d’acqua gelidi, ponti minati sono fra le più realistiche che io abbia letto di una fuga quando il fiato manca e il corpo non risponde finché Milton, con le pallottole che gli schizzano intorno, riesce a rifugiarsi in un bosco “…e a un metro da quel muro crollò”.
Queste, le parole finali.
Vivo? Morto? Chissà. D’altra parte, non sappiamo come è andata fra Fulvia e Giorgio, non sappiamo di Fulvia, non sappiamo qual è la spinta principale che induce Milton a rischiare la vita per salvare Giorgio, non sappiamo la sorte di Giorgio.
Non sappiamo niente delle “cose che sono successe” alla fine di queste centoventi pagine. E, tuttavia, sappiamo molto dei moti emotivi dei personaggi e anche di che cosa dev’essere stata la Resistenza, che pure qui rimane uno sfondo.
Uno di quei romanzi da leggere assolutamente.










