Aldo

Un cortile sul quale affacciano otto scale di un grande condominio.
Questa scala, quella dove si svolgono i fatti, otto piani, come tutte le altre, ha soltanto due appartamenti su ogni pianerottolo.
Dal piccolo ingresso, che su un lato vanta una pretenziosa scultura verticale di granito grigio sbruzzoloso, partono tre scalini per arrivare al livello dell’ascensore.
Ci si conosce poco, un saluto a scappare quando ci si incontra, una considerazione sul tempo se si capita insieme in ascensore, gli occhi che non sanno dove posarsi.
Vite normali, all’apparenza, che non mi suscitano la curiosità di certi personaggi che a volte incontro in giro, sul tram, al supermercato, nella villa.
Tranne uno, che chiamerò Aldo, perché non conosco il suo nome e perché mi pare giusto che un nome, sia pure fittizio, ce l’abbia.
Aldo ha un’età che mi è difficile definire, anche se sopra il trenta non mi pare azzardato, con un buon margine per “sopra”.
Aldo lo incontro veramente poco.
Quando lo incontro, quando ci incontriamo, non posso fare a meno di notarlo.
Chiunque, in effetti, lo noterebbe.
Aldo è un culturista, tutto muscoli, impossibile non accorgersi di lui.
Già questa considerazione – impossibile non accorgersi di lui – potrebbe essere una risposta alla domanda che mi faccio sul perché uno si dedichi a far emergere ogni singolo muscolo del proprio corpo.
In verità, le ragioni potrebbero essere mille, anche opposte alla prima che mi è venuta in mente e, infine, perché indagarle?
Il modo di porgersi di Aldo, peraltro, non assomiglia per niente a eccomi, guardate quanto sono figaccione.
Anzi, Aldo è quasi sfuggente: il massimo dello scambio che mi è arrivato al mio cenno di saluto è stato un lieve piegare del capo, sempreché non gliel’abbia voluta attribuire io a forza, la risposta, perché mi avrebbe fatto piacere riceverla e me lo avrebbe reso più condomino che personaggio.
Sempre con in mano il borsone della palestra, le braccia larghe, perché le dimensioni dei muscoli sia delle braccia che del tronco non renderebbero possibile che gli arti superiori siano adiacenti al resto del corpo.
Lo stesso le gambe, alle quali l’estensione sia dei quadricipiti che di tutto il resto impongono di muoversi con passi più larghi che lunghi.
Aldo mi sta simpatico e mi fa tenerezza; il mischiarsi di queste sensazioni produce in me una strana protettività, che non sembrerebbe essere il sentimento più adeguato a una figura di tale possenza muscolare.
Ci incontriamo, quando ci incontriamo, nel piccolo ingresso di cui dicevo, quello con la pretenziosa scultura verticale di granito grigio sbruzzoloso e i tre scalini fra il cortile esterno e il ripiano dell’ascensore: lui esce dall’ascensore o sta per salirci e io viceversa, non è invece mai capitato che ci trovassimo a entrare insieme in ascensore.
È perennemente abbronzato, Aldo. Poiché il colore, più sul gambero che sul bronzeo, è lo stesso identico in tutte le stagioni, sospetto sia prodotto da lampade.
Perciò, penso ad Aldo come a una vita artificiale in cui tutto gira intorno alla cura del corpo.
Forse è il suo aspetto comunque dimesso, in contrasto con il corpo potente, a trasmettermi questa forma di tenerezza. Lo immagino a disagio con il sesso, me lo figuro vivere nella bolla dei culturisti come lui che si misurano i progressi e si scambiano, o si nascondono, gli ultimi ritrovati.
Naturalmente, visto che non conosco niente della vita vera di Aldo, si tratta di mie fantasie che vengono da miei pregiudizi, questo lo so bene. È per dire qual era il mio sentire verso Aldo quando, quella mattina che scendevo alla solita ora, l’ho trovato schiantato, riverso a faccia in giù, la testa in direzione del portone che dà sul cortile, le gambe appese ai tre scalini che scendono dal pianerottolo dove si esce dall’ascensore.
Un portatile in terra, che l’infermiere sta scollegando dai sensori applicati sul corpo di Aldo, un altro infermiere che scansa la barella per farmi passare, una donna – la madre di Aldo, credo, dall’età – seduta in cortile su una fioriera con vicina una terza infermiera che le sta parlando con dolcezza e le tiene una mano.
Non so che fare. Uno sguardo interrogativo verso l’infermiere che armeggia intorno al pc portatile mi restituisce una sua occhiata che testimonia che no, non c’è proprio niente che si possa fare.
Mi soffermo, ma giusto un attimo, per non varcare la soglia della curiosità morbosa, vicino alla mamma di Aldo – sempreché sia la mamma, non posso esserne certo – scambio uno sguardo anche con l’infermiera che le è vicina, forse farfuglio, ma oggi non ne sono sicuro, c’è qualcosa che posso fare, ma anche l’infermiera mi risponde che no, proprio no.
Mentre mi allontano e cerco un senso che non trovo, perché in effetti non c’è, mi sento inutile nell’attraversare tutto quel dolore.










